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Anno 10° N° 36 Giugno 2001 Pag. 10° Autore: Paolo Cogorno
PSICOFARMACI E PSICOANALISI
Dottore, mi sento ansioso… non riesco a dormire…mi sveglio presto al mattino…
Può sembrare assurdo ma molto frequentemente questo è il copione iniziale che porta all'analisi; c'è un sintomo da curare, mi sento malato, vado dal medico; e, come da nostra cultura, lo subisco. Quanta ansia gli mostro? Tanta, poca, ma senz'altro direttamente proporzionale all'inchiostro che si verserà sulla ricetta. Se il mio medico è particolarmente attento all'importanza dell'aspetto relazionale, potrei anche essere indirizzato verso uno psicologo o addirittura uno psicoanalista…. con o senza psicofarmaci.
"Con o senza" - dicevo - perché la presenza o meno del farmaco e/o dell'analisi non è questione di poco conto e frequentemente ci porta a vivere una contrapposizione inutile, se non dannosa.
Paradigma fondante tale contrapposizione è la filosofia occidentale che, in quanto dualistica , si riverbera inevitabilmente e con gravi conseguenze nella nostra medicina.
Se approfondiamo il discorso si può riconoscere che esiste una vera e propria ideologia del farmaco; essa è molto semplice: bisogna "sedare", "rendere tranquille le persone agitate"; questo peraltro risponde a due esigenze della nostra struttura sociale: il controllo ed il mercato. Entrambi hanno interesse a ridurre il disagio psichico a malattia organica.
Direi che questa semplificazione ideologica del dolore psichico rende ragione dell'ampia diffusione degli psicofarmaci, spesso prescritti con poca attenzione, talvolta addirittura autoprescritti con medico connivente.
Se osserviamo il problema in termini epistemologici, il fuoco si concentra sulla annosa questione del dualismo mente-corpo, per cui o ci si occupa della migliore cura della malattia psichica (come fa la medicina oggettivante) oppure, riconoscendo valore simbolico ai sintomi, si pensa alla comprensione ed al senso che essi nascondono in sè (come fa la psicoanalisi) in una visione universale in cui tutto, corpo umano compreso, è pensiero vivo.
Possiamo anche dire che il pensiero (per la sua fenomenologia) ha una serie di corollari che chiamiamo attività psichiche, tra queste intendiamo anche le emozioni con tutti i correlati psicofisiologici (vasocostrizione-vasodilazione, sudorazione, pressione arteriosa, ritmo cardiaco-respiratorio etc.).
Sappiamo che tutte queste "funzioni" hanno un substrato neuroendocrino, neurotrasmettitoriale che fa capo alla struttura del sistema nervoso centrale e periferico, ovvero parliamo specificamente di attivazione-inibizione di circuiti neuronali, di attivazione dei releasing-factors ipotalamici con tutti i loro "organi bersaglio" etc.
etc. L'insieme delle attivazioni che arrivano all'esperienza cosciente costituiscono la fenomenologia dell'emozione, e, insieme ai contenuti del pensiero, una delle possibili fenomenologie del pensiero stesso cosciente di sé.
In questa concatenazione circolare di considerazioni, la coscienza è l'elemento che discrimina l'automatismo biopsichico (che potrebbe andare in "loop" all'infinito), da qualcosa che cerca trasformazione ed evoluzione e che, proprio attraverso la sfera biopsichica (automatismi compresi), cerca significato. Di conseguenza parlare di correlati neurofisiologici dell' emozione e del pensiero non ha senso: essi sono un'unica cosa con il pensiero stesso.
Lo psicofarmaco, considerato all'interno del solo "sistema di conoscenza" neurobiologico, può fare molti guasti; i più frequenti riguardano lo sviluppo dell'alienazione dal sintomo, la passività e la dipendenza psicofarmacologica, per non parlare dell' "autoprescrizione selvaggia" che è ben nota in ambito neurologico-psichiatrico.
Psicoterapia e psicoanalisi, d'altra parte, se escludono "ideologicamente" con atteggiamento dogmatico la sfera neurobiologica, possono favorire un irrigidimento dell'Io, nel suo intento di "farcela da solo a tutti i costi", incorrendo così anche esse nell'errore di rimuovere sia l'interezza del corpo-pensiero che i "tempi" specifici del corpo, il quale spesso ha latenze sintomatiche lunghe e in taluni momenti intensissime.
E' intuibile come questo atteggiamento rigido possa colludere anche con vissuti di "onnipotenza", non solo dell'analizzando ma anche dello stesso analista.
Il momento dell'opportunità di assumere il farmaco può arrivare all'interno di un percorso analitico; potrebbe essere all'inizio, con interruzioni e riprese nei momenti critici dell'analisi, oppure per brevissimi periodi in cui il dolore è intensissimo e non reggibile.
L'atteggiamento dialettico da parte dell'analista è fondamentale proprio per la posta che è in gioco e perché, come suggeriva C.G. Jung, i momenti di scompenso psicotico possono darsi nel percorso individuativo. Lo psicofarmaco penetra profondamente nella vita simbolica dell'individuo, alla ricerca di un senso evolutivo come tutti gli altri "elementi alchemici" di questo percorso.
Voglio raccontare brevemente l'esperienza di A., emblematica per quanto stiamo trattando.
A. soffriva di attacchi di panico, curati inizialmente solo farmacologicamente; su consiglio del neurologo è approdata alla psicoanalisi. Inizialmente il farmaco è la sua unica ancora di salvezza: gira sempre con i `salvavita' nella borsetta; di quel periodo è questo sogno:
"Dovevo cibarmi di un piatto guarnito di prosciutto e scatole di psicofarmaci, ero nauseata…" Il sogno fa riferimento alla dimensione di oralità e dipendenza dai farmaci: la nausea annuncia il momento di cibarsi di altro, di incontrare una maggiore soggettività e di staccarsi da una dimensione oggettuale e biologica dalla quale ci si sente `agiti' senza possibilità di uscita. A rincarare la dose arrivò anche questo sogno:
"Cercavo di afferrare gli psicofarmaci ma mi si squagliavano tra le mani e cadevano" .
In una successiva e meno tormentata fase dell'analisi, quando già da tempo aveva esaurito la terapia farmacologica, A. sogna :
"Il mio neurologo veniva da me per imparare l'inglese…". L'oralità e la dipendenza vengono gradualmente elaborate: la figura che curava la sfera biologica impara l'inglese - ovvero il linguaggio simbolico universale.
In una lettura sovrapersonale il sogno segnala anche la necessità di incontro tra i due mondi "culturalmente" opposti:
la medicina e l'analisi possono parlare, comunicare con la stessa lingua "simbolica".
In un terzo momento A. entra ed esce da momenti di scompenso: la netta percezione del Numinoso si alterna al sentirsi totalmente `agita' dal biologico. Questo è senz'altro il momento più duro e assolutamente sacro del suo percorso.
A. torna con riluttanza all'uso dei farmaci ma presto ne accetta la convivenza con una coscienza nuova: con l'umiltà dell'Io che accoglie senza vivere come una sconfitta il ritorno dei sintomi.
Passato questo periodo la situazione migliora sensibilmente e da allora in poi A. scala le sue pastiglie fino ad esaurimento.
Possiamo dire che in questa fase siamo distanti anni luce dall'iniziale rapporto con la terapia farmacologica: non c'è più la necessità biologica dalla quale si dipende mani e piedi, senza poter fare nulla, sviluppando passività e dipendenza. Il farmaco è una delle tante forme di Amore, Amore per sé, Amore dell'Essere per aiutare a dare consapevolezza alla vita e a mantenere viva la Presenza.
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